giovedì 25 novembre 2010

Fellini, Martone, la Nana e Testone

Mio padre ritratto da Fellini

Cena da Carlotta con il suo amico Renato che di mestiere fa l’aiuto regista. Guardando i disegni di Fellini, che Carlotta come me ha, viene fuori il discorso di mio padre, dei suoi rapporti con Fellini, del processo con Aristarco per il soggetto L’armata sagapo pubblicato su Cinema nuovo. E viene fuori che Renato, che sta lavorando con Calopresti sui rapporti tra comunismo e cinema italiano, proprio l’altro ieri è venuto a sapere del processo Renzi/Aristarco! Poi Carlotta ci mostra un ritratto fattole da Fellini di lei bambina che ordina al telefono azioni Montedison. Di quando Fellini la chiamava la Nana perché era una bambina con una voce e i discorsi da grande, mentre a me chiamava Testone. Insomma storie che si incrociano.

A fine cena arrivano il vicino di Carlotta e il mio fidanzato, un po’ geloso che io frequenti indipendentemente da lui le sue amiche. Il discorso va, come spesso in questi giorni, su Vieni via con me e Saviano (non se ne può più!;-)) e sul film di Martone Noi credevamo. L'impostazione teatrale di Martone, il film a quadri, il film che in certi punti è lento ma che comunque regge, nonostante certe sezioni troppo lunghe come la sezione sulla prigione… Dicono, io invece taccio.

Continuo a pensare al film. Mi è piaciuto o no?
Un film di grande amarezza. Da cui esce un Risorgimento che è stato un compromesso, con l'abbandono degli ideali repubblicani e il tradimento del popolo. Come ci dice l’immagine finale della fila dei cappelli a cilindro dei deputati, i cappelli dei ricchi che confermano le parole dell'inizio del padre del protagonista popolare del terzetto, quello ucciso dall'amico nobile. Ovvero che i signori ti fregheranno sempre, continueranno a rubarti l’olio di nascosto. Come l’immagine anacronistica dei piloni in cemento armato in pieno ottocento verso la fine del film. Il futuro degrado urbanistico del nuovo paese unito, con le sue case non finite e i ferri del cemento armato che spuntano dalle sommità.
Alla fine ne è valsa la pena di fare l’unità d’Italia, di piantare, come dice nel film la principessa Belgioioso, quest’albero malato? Il film non dà una risposta. C’è un grande senso di amarezza e fallimento, ma non sembra neanche che si stesse meglio prima. E la forza del film è proprio quella di creare una domanda e di instillare il dubbio: piuttosto che piantare questo albero così male, sarebbe stato meglio non piantarlo del tutto?
Interessante anche il punto di vista del film. Il punto di vista dei piccoli, della piccola storia. Lo sguardo laterale di chi nel Risorgimento è stato coinvolto, anche a costo della vita, ma non ne è mai diventato protagonista, ne è rimasto tagliato fuori. Lo sguardo dei traditi, del popolano che crede ai signori e poi da uno di questi, che credeva suo amico, viene ucciso, del repubblicano democratico che vede trionfare il compromesso con i vecchi poteri… Ci sono Mazzini e la Belgioioso, ma Garibaldi e Napoleone III vengono solo intravisti, come delle silhuoette. I Savoia, i Borbone non si vedono mai, ma se ne sente continuamente parlare, si progetta di ucciderli. Le cose avvengono in assenza, i fatti della Repubblica romana sono raccontati, gli echi dei grandi eventi arrivano nel buio di una prigione. Nella lunga sezione sulla prigione, da tutti temuta come un momento di rallentamento della narrazione e per me invece una delle più belle, anzi un momento di ripresa del film. Le mie prigioni non è forse un topos del Risorgimento? E così difficile da raccontare.
Il tutto con citazioni da Visconti, dalle scene di teatro dentro il film, come in Senso, alle musiche da melodramma.

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